mercoledì 3 febbraio 2010

Verso l'11 febbraio

Qualcuno ha detto una volta che la politica è il terreno delle cose possibili. Sarebbe bene opportuno tenerlo sempre presente quando si scrive o si parla del destino dell’Iran. Troppo spesso si confondono le previsioni con le speranze e si finisce col dare una rappresentazione erronea dei fatti.

L’Iran si appresta a celebrare i 31 anni dalla rivoluzione in un’atmosfera molto diversa rispetto ad appena un anno fa. Se il trentennale della caduta dello scià era stato celebrato in un clima di sostanziale indifferenza da parte della maggioranza della popolazione, quest’anno si preannuncia un febbraio di grande tensione.

Mir Hossein Mousavi, in un’intervista sul sito Kalameh, ha dichiarato che la Rivoluzione del 1979 non si è pienamente compiuta, dato che “le radici della tirannia e della dittatura esistono ancora”. Il leader riformista ha aggiunto che “oggi esistono (in Iran) sia elementi che producono dittatura sia elementi che combattono contro un ritorno alla dittatura. Censurare i media, riempire le prigioni e uccidere brutalmente nelle strade le persone che rivendicano pacificamente i propri diritti, sono elementi che indicano come le radici della dittatura e della tirannia sopravvivono dall’era della monarchia. Non credo che la rivoluzione abbia raggiunto i propri obiettivi”.

Queste parole fanno parte di un discorso molto lungo, articolato in 14 punti. Mousavi non si limita a una denuncia, ma prova ancora una volta a tracciare un percorso per uscire dalla crisi politica apertasi con le elezioni del 12 giugno. L’ex premier dichiara che la Costituzione iraniana non è una “rivelazione immutabile”, visto che alcune ne sono state cambiate alcune parti nel 1989. Mousavi suggerisce di apportare alcune modifiche sulla base “delle richieste del popolo e della nostra esperienza nazionale”.

Il leader riformista ha poi denunciato ancora una volta le restrizioni delle libertà d’opinione, sottolineando cone “nel movimento verde ogni persona è un media”.

È un’uscita pubblica significativa, in vista delle annunciate manifestazioni dell’11 febbraio (22 bahman secondo il calendario persiano), giorno in cui si commemora la vittoria della rivoluzione. È importante ricordare che l’11 febbraio 1979 fu il giorno in cui l’esercito iraniano proclamò la propria neutralità, quasi un mese dopo la fuga dello scià (16 gennaio). Oggi è molto difficile ipotizzare una situazione simile, perché tra potere politico e militari (basji e pasdaran) il legame è molto più stretto e solido rispetto al periodo monarchico.

Se la politica interna sembra evolversi ancora piuttosto lentamente, lo scenario internazionale sembra subire un’accelerazione drastica. In particolare, sembra cambiare la posizione italiana. In visita a Gerusalemme, Silvio Berlusconi ha auspicato nuove dure sanzioni contro l’Iran, colpevole, a suo avviso, di mirare alla bomba nucleare. Berlusconi ha anche definito il governo di Teheran “poco popolare” e ha promesso sostegno all’opposizione iraniana.

Quasi in contemporanea, il vicepresidente Usa Biden ha detto che ''il governo iraniano ha perduto la sua credibilità morale nel paese e nella regione facendo ricorso ai metodi violenti per reprimere il dissenso. Ci stiamo muovendo insieme al resto del mondo, compresa la Russia ed altri, per far scattare nuove sanzioni contro Teheran. Ci stiamo muovendo nella direzione giusta in modo calibrato. Il governo di Teheran sta piantando i semi della sua distruzione restando aggrappato a tutti i costi al potere e reprimendo il dissenso”.

Tutto questo nel giorno in cui il presidente iraniano Ahmadinejad – sempre più isolato all’interno – rilancia alla tv di Stato: ''Non abbiamo problemi a mandare all'estero il nostro uranio arricchito''.

Questo nuovo atteggiamento da parte della comunità internazionale può condizionare la situazione interna? Molto probabilmente sì, ma difficilmente ne beneficeranno l’Onda verde e il fronte riformista. Quando l’Iran torna a essere al centro delle critiche, sono i “falchi” ad avere gioco facile contro il “nemico esterno”.

Il vero banco di prova per la Repubblica islamica sarà nei prossimi mesi la situazione economica. Il governo Ahmadinejad ha infatti varato una drastica riforma del sistema di sussidi che rischia di provocare un sensibile peggioramento degli standard di vita dei ceti popolari.

L’ayatollah Khomeini, nel suo testamento politico, ammonì i propri successori: “Se perderete il sostegno dei diseredati, farete la fine dei Pahlevi”.

Nessun commento:

Posta un commento