giovedì 18 marzo 2010

Un ottantanove persiano

In Iran sta per cominciare un nuovo anno. Cosa è cambiato dall’ormai celebre messaggio di Obama ad oggi



Il 1388 sarà ricordato come uno degli anni (persiani) più intensi che l’Iran abbia mai vissuto. È passato giusto un anno dal video messaggio di Obama in occasione del No Ruz, il capodanno persiano. In meno di 12 mesi in Iran si è passati da momenti di euforia e speranza ad altri di angoscia e disperazione. Per la maggior parte dell’opinione pubblica mondiale, le manifestazioni del giugno 2009 sono state una rivelazione. L’Onda verde è diventato in poche settimane un fenomeno raccontato prima dalla tv e poi dai social network. L’Onda verde, in poche parole, è diventata il volto positivo di un Paese che dal 1979 non gode certo di buona stampa. Va però detto che spesso si è sostituito uno stereotipo con un altro. Se prima del giugno 2009 l’Iran era per molti occidentali un Paese arretrato e abitato soltanto ayatollah barbuti, adesso si tende a enfatizzare il ruolo dei giovani belli, istruiti e senza paura che lottano per la democrazia contro un potere feroce.

Da questa semplificazione nascono una serie di giudizi e previsioni erronei e grossolani. Se è indubbio che a nove mesi dalle elezioni presidenziali, la Repubblica islamica non è di certo uscita dalla sua crisi più grave, è altrettanto evidente che questo sistema politico non è affatto prossimo a quel crollo che in tanti consideravano imminente.

Partiamo da un dato basilare, spesso trascurato: l’Onda verde non nasce come movimento di protesta contro il sistema ma come campagna per Mousavi, candidato d’opposizione in una delle elezioni più vivaci e più partecipate della Repubblica islamica e della storia iraniana in assoluto. Non è un dettaglio, ma un dato sostanziale. Il 12 giugno l’85 per cento degli aventi diritto si mette in fila e va a votare. Cosa sarebbe accaduto se gli iraniani avessero accolto in massa il suggerimento del premio Nobel Shirin Ebadi (per fare un esempio) e avessero boicottato il voto? Probabilmente la rielezione di Ahmadinejad sarebbe avvenuta senza clamore, e in caso di brogli, nessuno o quasi avrebbe protestato. Già nel 2005 Mehdi Karroubi, candidato anche allora, aveva denunciato l’ingerenza dei pasdaran nelle operazioni di voto. Ma la palese disaffezione degli iraniani per la politica, dimostrata dall’alta astensione, non aveva portato a nulla. Stavolta invece la protesta è esplosa in modo inatteso e ha finito per trascinare l’intero sistema in una crisi senza precedenti.

Il confronto con la rivoluzione del 1979 è improponibile. Il regime dello scià, proprio perché espressione di una sola persona, era meno elastico e crollò rapidamente. La Repubblica islamica è un sistema molto più complesso e intrecciato con la realtà del Paese. Ne è un esempio la questione delle sanzioni: come colpire “soltanto” i pasdaran se nei loro “interessi” si contano 65 società che – dalla telefonia ai trasporti – hanno a che fare con la vita quotidiani degli iraniani?

Da 31 anni l’Iran ha adottato un sistema politico originale, complicato, non privo di elementi democratici ma incentrato sulla figura del rahbar, la Guida suprema. Come sostiene lo studioso francese Bernard Hourcard, l’Iran non è ancora una democrazia, ma è una repubblica. E non è cosa da poco, soprattutto in Medio Oriente, dove la maggior parte dei Paesi sono governati da autocrazie più o meno palesi.

Ed è su Khamenei, piuttosto che su Ahmadinejad, che dovrebbero concentrarsi le analisi politiche. Non solo perché la Guida – secondo la Costituzione iraniana - è più importante del presidente, ma anche perché è il comportamento di Khamenei ad aver inciso in maniera significativa sugli eventi degli ultimi mesi. Schierandosi in difesa dei brogli, la Guida ha perso qualsiasi credibilità e autorevolezza e ha spinto i manifestanti ad assumere posizioni sempre più anti-sistema. Superate le elezioni, le distanze tra presidente e Guida si sono fatte sempre più grandi. Non è azzardato affermare che al momento Ahmadinejad deve affrontare due avversari: l’opposizione riformista e un fronte conservatore che si riconosce ancora in Khamenei. Gli stessi pasdaran (dai quali Ahmadinejad proviene) sono di fatto una forza (economica, politica e militare) se non proprio indipendente, di certo autonoma.

Queste differenze si sono viste soprattutto in politica estera. Ad ottobre Ahmadinejad l’accordo sul nucleare l’avrebbe firmato, per incassare un successo e riaccreditarsi come leader a livello internazionale. Ma sono stati Guida suprema e pasdaran a fermare il dialogo. Non c’è tanto una ritrosia dettata da motivazioni ideologiche: i politici iraniani sanno essere anche molto pragmatici, all’occorrenza. Ricordiamo che durante la guerra con l’Iraq, lo stesso Khomeini accettò di buon grado armi israeliane sotto banco pur di fronteggiare Saddam. Così oggi Khamenei e pasdaran non vogliono un’apertura internazionale soprattutto perché la tensione è un ottimo diversivo rispetto ai problemi interni e un elemento che ricompatta gli iraniani, sempre molto nazionalisti. Le stessa sanzioni Usa ci sono di fatto da 30 anni e hanno sempre rafforzato i conservatori, non certo l’opposizione. Cominciano a capirlo anche a Washington: l’8 marzo il vice segretario al Tesoro Usa Neil Wolin ha dichiarato che “compagnie come Microsoft, Google e Yahoo potranno operare nei paesi nei confronti dei quali gli Usa hanno politiche di embargo”. Meglio tardi che mai, visto che l’embargo sul web finisce col danneggiare proprio chi dall’Iran cerca di far uscire notizie.

Quando Hillary Clinton ha dichiarato che l’Iran rischia di diventar una dittatura militare, denuncia una realtà politica iniziata non ora, ma con la prima elezione di Ahmadinejad nel 2005. Da allora la presenza di militari ed ex militari nelle istituzioni è sempre più massiccia. Ma le “preoccupazioni” della Clinton non devono trarre in inganno: questa amministrazione – come tutte le precedenti – pensa agli interessi e agli elettori americani. Se Washington avesse tanto a cuore le sorti della democrazia in Medio Oriente, forse dovrebbe cominciare a guardare in casa dei suoi alleati, dall’Egitto all’Arabia Saudita, dalla Giordania ai Paesi arabi del Golfo Persico.

Sulla questione nucleare, dopo una breve fase interlocutoria, Russia e Cina sembrano confermare un sostanziale appoggio a Teheran, frenando su nuove sanzioni. D’altra parte, gli interessi economici in ballo sono enormi. L' Iran è il terzo fornitore di petrolio della Cina, dopo Arabia Saudita e Angola, e nei primi 8 mesi del 2009 l' export iraniano in Cina è stato di oltre 2 miliardi di dollari, con una crescita del 26,4% rispetto al 2008.

In questo quadro generale non ha molto senso parlare di un cambio radicale di regime, magari indotto dall’esterno. È anzi auspicabile che i vari Mousavi, Karroubi e Khatami continuino a sostenere l’Onda verde e che anzi ne indirizzino le azioni alla ricerca di uno sbocco politico. Perché gli ultimi sviluppi (il sostanziale fallimento delle dimostrazioni dell’11 febbraio) dimostrano come questo movimento rischia di sprecare energie e tempo se non individua obiettivi concreti.

Mousavi ha recentemente dichiarato che la Costituzione iraniana non è una “rivelazione immutabile”, suggerendo di apportare alcune modifiche sulla base “delle richieste del popolo e della nostra esperienza nazionale”. Troppo poco? Un amico rifugiato politico, scappato dall’Iran nell’estate 2009 continua a dire: “Noi non vogliamo una rivoluzione”. Questo potrà non piacere a molti, ma l’alternativa qual è?

Il vero banco di prova sarà nei prossimi mesi la situazione economica. Il governo Ahmadinejad ha infatti varato una drastica riforma del sistema di sussidi che rischia di provocare un sensibile peggioramento degli standard di vita dei ceti popolari. All’interno dell’Onda verde potrebbero trovare spazio le istanze di un movimento sindacale vittima – specie negli ultimi mesi - di una repressione brutale.

L’ayatollah Khomeini, nel suo testamento politico, ammonì i propri successori: “Se perderete il sostegno dei diseredati, farete la fine dei Pahlevi”. Probabilmente l’establishment ha ben chiaro questo rischio, ma trovare una via d’uscita non è semplice. Se anche dalla tempesta si dovesse passare a un periodo di bonaccia, il problema sarebbe soltanto riandato. Chi prenderà il posto di Khamenei? Sarà ancora proponibile un’unica Guida?

Nelle ultime settimane l’Onda verde ha proposto un referendum come via d’uscita dalla crisi. Non si capisce però su cosa sarebbero chiamati a votare gli iraniani. Sul risultato delle presidenziali di un anno fa, come suggerisce Khatami? Oppure sui poteri del Consiglio dei Guardiani, come invece vorrebbe Karroubi? Questa vaghezza di intenti riassume perfettamente i limiti di un movimento. Se l’Onda verde vuole continuare a essere protagonista anche nel 1389, deve cercare di trovare al più presto una sponda politica.

venerdì 5 marzo 2010

Seminario L’Onda Verde iraniana

Giovedì 11 marzo alle ore 18:00 a Roma, presso la sede dell’Associazione Culturale di Studi Umanistici “Leussô” in viale Regina Margherita 1, in collaborazione con il blog “Amici dell’Iran” avrà luogo il seminario L’Onda Verde iraniana.


All’incontro, moderato da Francesco Anghelone, interverranno:
Antonello Sacchetti - giornalista pubblicista e scrittore, fondatore e direttore della rivista «Il Cassetto»;
Reza Ganji - giornalista iraniano, collaboratore di diversi media di area riformista.
Al dibattito prenderà parte in videoconferenza Mahmood Amiry-Moghaddam, portavoce del network “Iran Human Rights” che si batte contro la pena di morte in Iran, soprattutto quella inflitta ai minori. Amiry-Moghaddam presenterà il “Rapporto sulla pena di morte in Iran - 2009” pubblicato in questi giorni.


L’incontro si propone di presentare il movimento dell’Onda Verde e approfondire l’analisi della situazione che si è determinata in Iran a seguito delle elezioni del giugno 2009. Nel paese infatti si assiste, per la prima volta dal 1979, a un movimento di protesta che rischia di minare alle fondamenta la stessa Repubblica islamica. Un movimento che ad oggi non è mai ricorso alla violenza e che tuttavia continua con forza a contestare la rielezione di Ahmadinejad e l’atteggiamento assunto in merito dalla guida suprema, l’ayatollah Khamenei.